Buongiorno lettori! Ieri sera non riuscivo a dormire e ho scritto un breve racconto, di getto. Comprendo che non sia nulla di che, ma in queste settimane sono stata bloccata dall’ispirazione e anche solo scrivere qualcosa è stato un passo in avanti. Ho pensato di condividerlo qui. In realtà credo di proseguire, sistemandolo e allungandolo un pochino. Magari fatemi sapere se secondo voi merita un approfondimento.
La panchina
Non so che cosa era stato ad attirarmi verso di lei. Forse il suo abbigliamento, così fuori stagione o il fatto che se ne stesse semplicemente seduta, a occhi chiusi, mentre la neve le cadeva sui capelli. Aveva la testa appoggiata contro lo schienale della panchina e il volto rivolto all’insù, pronta ad accogliere i fiocchi che cadevano dall’alto.
Avevo i piedi congelati e il naso rosso dal freddo, ma rimasi lì, ad osservarla. Pensai di sfiorarle la spalla, almeno per assicurarmi che non fosse morta assiderata.
«Non sono morta, se è questo che ti stai chiedendo.» disse lei, all’improvviso. Aprì gli occhi, ma non alzò la testa. Non mi guardò nemmeno.
«Stai… bene?» domandai. Le mie guance furono invase da un calore insolito.
Lei sospirò. «Sì. Sto meditando.»
Sollevai le sopracciglia, incerto di aver udito bene. «Meditando?»
«Sì, è quello che ho detto.» disse lei seria.
«Oh, okay.»
Rimasi in silenzio, pensando a come andarmene senza risultare scortese. Avevo la busta della spesa in una mano e un piatto di spaghetti che aspettava di essere cucinato.
Ero uscito controvoglia dal rifugio confortevole del mio appartamento, per avventurarmi nella bufera che aveva colpito la città il giorno precedente.
La fame aveva avuto la meglio e, calzando gli stivali che avevo acquistato in montagna il mese prima, avevo attraversato il parco deserto per raggiungere il negozio di alimentari in fondo alla via.
Non avevo incontrato anima viva, ad eccezione della sconosciuta sulla panchina e di un gruppo di ragazzini che giocava a lanciarsi palle di neve. Una mi aveva colpito sulla schiena, ma prima che potessi imprecare, i teppistelli si erano dileguati tra le risate.
«La neve mi aiuta a pensare.» aggiunse la donna.
Aggrottai la fronte e lei sbuffò.
«Siediti.» ordinò.
«C… come?»
«Siediti e chiudi gli occhi.»
Senza neppure sapere perché mi sedetti al suo fianco. Sentii il freddo penetrarmi nella pelle del fondo schiena. Appoggiai la testa contro allo schienale, guardando il cielo grigio sopra di me. I fiocchi mi cadevano sul viso, dissolvendosi nell’istante stesso in cui toccavano la mia pelle.
«Devi chiudere gli occhi, altrimenti non funziona.»
Avrei voluto chiederle che cosa avrei dovuto sentire, ma decisi di restare in silenzio e feci come ordinava.
Sorrisi.
Carla sosteneva che ero un uomo noioso, che non ero mai stato spontaneo nel corso della nostra relazione. Si sbagliava.
“Fottiti, Carla.” pensai. Un uomo noioso non sarebbe rimasto seduto all’aperto in quelle condizioni atmosferiche.
«Che cosa devo fare ora?» domandai.
«Shh.» mi interruppe lei. «Libera la mente.»
Liberare la mente. Sembrava facile, ma il pensiero di Carla continuava a tormentarmi.
Erano passate due settimane dal suo addio e non c’era istante in cui non avessi pensato a lei. Mi mancava.
Lei mi aveva rinfacciato che era colpa mia se se ne era andata, che non la portavo mai da nessuna parte e che le serate davanti alla televisione l’avevano stancata. Aveva bisogno di qualcosa in più, qualcosa che io non potevo darle.
Avrei proprio voluto sapere che cosa fosse quel qualcosa in più, ma non lo avevo ancora capito.
Insieme alle sue cose aveva portato via dall’appartamento anche Mouse, il gatto siamese che avevamo adottato qualche anno prima; e la routine che aveva fatto parte della mia vita fino a un attimo prima.
Mi ero domandato se Carla si fosse innamorata di un altro uomo, ma era ingiusto cercare di darle una colpa che apparteneva soprattutto a me.
Quella consapevolezza non mi aveva impedito di domandarglielo. Non mi sarei mai dimenticato lo sguardo ferito sul volto di Carla. In quel momento avevo capito: l’avevo persa per sempre.
Cercai di scacciare quell’immagine dalla mente e mi concentrai sul mio respiro.
Dentro, fuori. Dentro, fuori.
Il freddo all’improvviso non mi sembrò più un problema. Riuscivo a sentire i fiocchi cadermi sulla fronte e sulle palpebre, ma non mi davano fastidio, erano come una dolce carezza.
Eravamo due adulti, a occhi chiusi, nel bel mezzo di una tormenta di neve. E non me ne importava.
Dentro, fuori. Dentro, fuori.
Non pensai più a Carla, non pensai al sacchetto con gli spaghetti che avevo abbandonato ai miei piedi e nemmeno al gatto che con tutta probabilità non avrei mai più visto.
C’ero soltanto io. Ero a pezzi, ma ero sempre io.
Vivo.